
Chiudo il romanzo di Veronica Raimo, intitolato “Niente di vero“, ed edito da Einaudi e penso, nell’ordine:
- Moriremo di marketing
- Evidentemente io e Zerocalcare ridiamo per cose molto diverse
- I quarantenni sono tutti così? Panico
Non mi spiego come sia possibile essere così indeterminati. Indefiniti. Incapaci di esistere. Ma soprattutto…quanto c’è di vero?

Quanto gioca appunto la componente “autosuggestione“? E quanto il:
Ma sì, dài, facciamo che sono io.
p. 148
Non vorrei che fosse tutto un cucirsi addosso un personaggio un po’ sventurato, un po’ diverso, a tutti i costi fuori dagli schemi. E giuro che non ce la faccio a subire passivamente questo inno all’inadeguatezza di una generazione, solo per assecondare il policatically correct.
E non è che penso che si debba sempre essere inquadrati, incasellati, determinati e convinti di ogni micro-aspetto della nostra esistenza. Anzi. Ci sono lunghi periodi in cui mi sento una polaroid sfocata. Però, PERIODI, appunto.
Ma qui, in questo romanzo, caro personaggio-oscuro-votato-unicamente-al-dio-denaro che ha promosso il libro pensando solo al numero di copie vendute, ti assicuro che c’è ben poco da ridere. Al più, si sorride, amaramente.
E così, tra una madre macchiettisticamente ansiosa, un padre ipocondriaco che costruisce muri a ripetizione in un mini appartamento, murando viva l’intera famiglia, un fratello ego-riferito che finisce in politica e accenna a passaggi della Bibbia quando non sa cosa dire o peggio non ascolta, uomini di passaggio, un aborto e un lutto (quest’ultimo raccontato in modo molto elegante), questa storia si compone di vuoti.
La trama è semplice
La Raimo parla della sua famiglia, di alcune tappe della sua vita, crogiolandosi nel senso di disagio che afferma di aver provato costantemente. E non lo so se non riesco a empatizzare con lei perché veniamo da realtà e vissuti totalmente diversi o perché sono più piccola di lei di oltre dieci anni. Quello che so è che la reazione che ho provato leggendo certi passaggi è stato fastidio, un tremendo fastidio. Per chi quasi fa un vanto della sua condizione di disagiato cronico. Anche se, a volte, gli sfigati ci fanno un po’ sorridere, ci fanno provare tenerezza, trovo che arrendersi a questo status sia molto triste. E celebrarlo, lo è ancor di più.
E quindi, questa volta, sono molto indecisa se consigliarvi questo romanzo. Posso dirvi questo: leggetelo se siete curiosi, ma sappiate che è stato venduto come qualcosa che non è, e cioè un libro divertente che parla della donna di oggi. (Ma dove?)
Alla prossima puntata, amici lettori!