Sono un po’ in ritardo con la mia programmazione editoriale, quindi intanto approfitto per raccontarvi una storia bellissima. Una chicca tutta italiana.
Vi parlo di Montereggio, il paese dei librai
La cosa bella del mio lavoro nel mondo della comunicazione è la possibilità di scoprire costantemente cose nuove. Per esempio, ho scoperto che Montereggio, un borgo toscano in provincia di Massa-Carrara, non solo è il “paese dei librai” ma è anche la prima Booktown italiana: è parte, infatti, di una rete internazionale di città che vivono di letteratura, festival letterari e librerie.
Tutto deriva dalla capacità dei montereggini di diversificare le proprie attività, dedicandosi non solo all’agricoltura e al commercio ma anche ai libri. Sin dall’Ottocento, Montereggio ha contribuito alla diffusione di tantissimi volumi grazie al lavoro dei librai ambulanti che partivano con le loro gerle colme di libri, arrivando in pianura per rifornire librerie e bancarelle delle città del Nord.
È sempre qui, tra l’altro, che nel 1953 nasce il Premio Bancarella e anche il Festival del Fumetto “Nuvole a Montereggio” che riunisce moltissimi artisti ed editori tutte le estati (quest’anno, l’appuntamento è programmato il 16 e il 17 luglio). E oggi, tutte le strade di questo paesino, situato tra le bellissime colline della Lunigiana, sono costellate da librerie indipendenti e le vie sono intitolate ai grandi editori italiani
“Paesini – la serie”
Se siete appassionati di borghi italiani, vi consiglio di dare un’occhiata al progetto editoriale di EOLO e What Italy Is – in cui si inserisce anche la bellissima storia di Montereggio – per scoprire delle realtà Made in Italy davvero incredibili!
Sì. Non è più gennaio. E sì, non ho scritto questo mese. Ma è tutto sotto controllo. Ho appena finito di leggere il romanzo che mi ha accompagnato in questo inizio 2019. E lasciatevelo dire, amici lettori: che romanzo!
Di cosa parla The Hate You Give?
Di rabbia. Di lotta. Di paura. Di identità. Di razze. Di bianchi contro neri. Di fratelli e di nemici. Parla di gang, di violenza. Parla di ingiustizia. Parla di un’America incazzata.
Parla del tempo buio che stiamo vivendo. Quello dal quale sogno di svegliarmi. Quello che non voglio lasciare in eredità al prossimo.
E Starr, la sedicenne nera, protagonista della storia di questo romanzo, e la sua intera famiglia sgangherata, abituata a vivere nel ghetto, è d’accordo con me.
Tua sorella si chiama Starr perché è stata la mia luce nel buio.
p. 339
È questo che Angie Thomas, l’autrice, vuole davvero raccontarci.
Può esserci luce nel buio.
Anche quando assisti impotente all’omicidio di due amici. Anche quando il tuo migliore amico viene assassinato ingiustamente da un poliziotto bianco. O quando tuo padre viene costretto a mettersi faccia a terra perché è un ex detenuto. E perché è nero.
E voi sapete cosa significa THUG LIFE?
’Pac diceva che Thug Life, cioè “vita da teppista” stava per The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody, L’odio che rovesciamo sui bambini fotte tutti.
Inarco le sopracciglia. “Cosa?”
“Ascolta! The Hate U, la lettera U, Give Little Infants Fucks Everybody. T-H-U-G-L-I-F-E. Nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo. Capisci?”
p. 22
Questo è l’ultimo insegnamento che Khalil riesce a dare a Starr, prima di essere sparato a bruciapelo da un agente senza nessun reale motivo.
Alza lo sguardo, Starr.
p. 96
Ma quant’è difficile uscire allo scoperto? Ammettere a se stessi che la morte di qualcuno, di una persona cara, la morte di cui sei il testimone oculare, non ha avuto senso. Quant’è difficile confessare di aver paura di ritorsioni sulla propria famiglia? Quant’è difficile fare la cosa giusta? E quanto può essere difficile trovare il coraggio di raccontare tutto a procuratori e poliziotti che vogliono solo giustificare un collega. Perché “tanto era solo uno spacciatore”.
Ma perché Khalil spacciava? Perché alcuni di noi (i reietti della società, quelli che ci sforziamo di non vedere agli angoli delle nostre città scintillanti, per intenderci) sono costretti a spacciare?
“Perché hanno bisogno di soldi” rispondo. “E non hanno molti altri modi di procurarseli.”
“Esatto. La mancanza di opportunità” dice papà. L’America del grande capitale non crea occupazione nei nostri quartieri, e di sicuro non ci assume volentieri. Poi, diamine, anche quando arrivi a prenderti un diploma, molte delle nostre scuole non ti danno una preparazione adeguata.”
“(…) La droga da qualche parte arriva, e sta distruggendo la nostra comunità. (…) I Khalil vengono arrestati per spaccio, trascorrono metà della loro vita in carcere, un’altra industria da miliardi di dollari, oppure quando escono non riescono a trovare un vero lavoro e probabilmente si rimettono a spacciare. È questo l’odio che ci somministrano, piccola, un sistema studiato contro di noi. È questa la Thug Life”
pp. 161-162
p. 184
E come si fa a condannare la frustrazione dei popoli oppressi? La sete di giustizia e di libertà. Io rispetterò sempre questa rabbia. Non decidi di che colore sarà la tua pelle. Né in che parte di mondo nascerai. Puoi decidere qualcos’altro, però.
Una voce
È proprio questo il problema. Permettiamo alle persone di dire certe cose, e loro le dicono così spesso che dopo un po’ lo trovano ammissibile e noi normale. Ma che senso ha avere una voce, se poi resti in silenzio quando non dovresti?
p. 233
Puoi decidere di usare la tua voce.
Tempo fa pensavo che la mia generazione, e io in prima persona (non voglio nascondermi), non fa abbastanza per manifestare il proprio dissenso. Eppure sono convinta che c’è, che serpeggia. Allora arrabbiamoci di più! Protestiamo di più. Facciamoci sentire. Non possiamo aspettarci che qualcuno lo faccia al posto nostro. I supereroi della nostra storia siamo noi. E se è vero che ognuno lotta come può, è anche vero che forse non è abbastanza, allo stato attuale. Voglio fare di più. Voglio parlare di più. Voglio essere più coraggiosa.
Khalil, io non dimenticherò mai.
Non mi arrenderò mai.
Non starò mai zitta.
Lo prometto.
p. 405
E voglio prometterlo anch’io.
Per cambiare le cose, bisogna lottare. E l’arma più potente è la nostra voce. Forse ora tocca a noi. Questo, per dirla con Angie Thomas, potrebbe essere
“Qualcosa per cui vivere, qualcosa per cui morire”.
Purity di Jonathan Franzen mi ha accompagnato in questa fine 2018. Un anno intenso, turbolento, rivelatore. Esattamente come questo romanzo.
Come vi avevo promesso, il post di oggi è dedicato ai segreti. Al loro potere e alla loro capacità di unire le persone. Strano, in effetti. Prima di leggere questo passaggio, avevo sempre pensato, in maniera infantile (forse), che i segreti dividessero le persone. Creassero delle barriere, che fossero il preludio alla rottura dei rapporti. Voi cosa ne pensate? Sapete mantenere i segreti? Sono un bene o un male, secondo voi?
Ed ecco. In quest’epoca di ossessiva condivisione digitale, in cui è sempre più difficile avere dei segreti, vi lascio alle parole dell’autore che trovate a pagina 324.
Franzen restituisce tante piccole verità. Verità scomode da accettare ma che non possiamo fingere di non condividere.
Non possiamo fingere di non aver mai pensato che
Il volto non visto è sempre bellissimo.
p. 273
O che
(…) sotto sotto, in fondo al cuore, forse tutti si consideravano pieni di fascino. Forse era semplicemente una caratteristica umana.
p. 334
Così come non possiamo ignorare l’invasività di Internet nelle nostre vite e gli effetti che può avere:
Il cervello ridotto dalla macchina a un circuito di feedback, la personalità privata ridotta a una generalità pubblica: a quel punto la persona poteva anche essere già morta.
p. 547
Ma davvero tutto si riduce a questo?
Speriamo di no. Speriamo di svegliarci da questo torpore digitale.
Buon 2019 a tutti, amici lettori! Che sia pieno di tanta meravigliosa letteratura.
Chissà perché scegliamo di leggere alcuni romanzi e non altri. Certe storie e non altre. Quando selezioniamo un libro sono tanti i fattori che intervengono. Sì, ammettiamolo: a volte, anche la copertina gioca un ruolo (non c’è bisogno di fare i timidi).
Quando ho letto la trama di “Gilgi, una di noi” stavo per rimetterlo al suo posto sullo scaffale della libreria.
L’ennesima storia d’amore no, viprego!
Poi ho dato uno sguardo alla biografia dell’autrice…
Chi è Irmgard Keun?
Nata a Berlino nel 1905, si trasferisce presto a Colonia dove diventa una dattilografa. Per un breve periodo lavora come attrice ma decide quasi subito di dedicarsi alla scrittura. Gilgi, eine von uns è il suo primo romanzo e viene pubblicato nel 1931 ottenendo un grande successo. Nel 1933, insieme al suo secondo lavoro (La ragazza di seta artificiale), Gilgi finisce per essere censurato dal regime nazista e Irmgard viene anche arrestata. Da questo momento in poi, quella dell’autrice tedesca sarà una vita in fuga, prima in Belgio e poi nei Paesi Bassi. Conosce lo scrittore Joseph Roth e se ne innamora. Torna a nascondersi in Germania, protetta dalla falsa notizia del suo suicidio. Qualcosa si è spezzato in Irmgard. I suoi lavori non suscitano più interesse. Subisce diversi ricoveri psichiatrici. È un’alcolizzata, ormai. Continua a scrivere durante gli anni Settanta ma viene ignorata da pubblico e critica. Muore nel 1982.
Da qualche anno, però, è in atto una riscoperta dell’opera di questa scrittrice originale e fuori dagli schemi. E “Gilgi, una di noi” è letteralmente risorto dalle sue ceneri. E allora mi sono detta: voglio assolutamente conoscerla e scoprire perché ha dato così fastidio ai nazisti.